
Ho ricevuto questa lettera da un carissimo amico:
Dalla parte dell’ammalato. Sensazioni, impressioni, emozioni. Testimonianza insolita forse, questa. Forse dall’esterno ne hanno raccontate tante. La mia, invece, viene dal di dentro. Se possibile, per aiutare.
Con l’improvvisa realtà capitatati tra capo e collo impatto amaro? Un po’ eufemistico è dire amaro. Crudele, da tregenda, di più. Tutto ti precipita intorno e non vuoi darlo a vedere.
Una volta lo chiamavano “cancro”. Poi, per rendere meno traumatico il turbamento, il “cancro” diventava “tumore”. Allora finiva sempre con l’essere letale. Oggi ti addolciscono la pillola chiamandolo “polipo”, o “fungo”. Di certo meno traumatico di una volta è affrontare la nuova situazione che ti aggredisce, ma non ti è per niente facile trovare serenità. E pensi, e rimugini, e ti dibatti in dubbi che continuano a perseguitarti. A te? proprio a te? Mai fumato, mai bevuto, la moglie che spende cinque volte di più per verdura e frutta biologica, una vita sempre sana attraversata da tanto sport che hai sempre fatto e che continui a fare e far fare. Credevi proprio che problemi come questo non potessero che appartenere ad altri. E dubbi ancora: che cosa respiriamo noi oggi? E poi: quanto incide ciò che è scritto nel tuo DNA? Il fratello Silvano, campione di mezzofondo all’Istituto Rossi e poi ai vertici dell’atletismo vicentino e veneto nei lontani anni ’60, tornava da una campestre malato di quella sindrome di Hodgins, linfogranuloma maligno, dal quale oggi si guarisce con facilità. Lottava per undici anni dando tutto alla scuola e dedicandosi pienamente allo sport dei suoi ragazzi.
Insomma, ti è capitato. Ti avevano detto: “Perché non vai a Padova?” e poi: “Ma vai all’ospedale, dove più sicura è la struttura!”. Hai fatto invece la scelta della clinica. Nel tourbillon di tutto il resto, scelta ponderata. Arriva il momento del taglio, piuttosto cruento, per l’asportazione di ottanta centimetri di intestino, quello alto, il cieco, vicino alla valvola, con abbarbicato quel maledetto polipo. Pensi a quanto qualche giorno prima era tanto distante dai tuoi pensieri e dalle tue preoccupazioni, pensi al dolore, pensi all’anestesia con l’ago che ti sfiora il midollo, pensi alle sofferenze post-operatorie, pensi all’esito dell’esame istologico dei frammenti strappati in occasione della colonscopia, con al referto “bordeline”, che significava né positivo, né negativo, ma in possibile fase degenerativa, pensi all’esito definitivo che ti arriverà dopo, a intervento chirurgico ultimato, sull’analisi di quanto ti verrà asportato. E pensi con trepidazione e spavento alle eventuali terapie del dopo. Puoi dire di essere grato alla clinica. Altro che malasanità! Soddisfare almeno l’aspetto psicologico è importante. Alle 8,30, sotto i ferri per iniziare, il patema ti si sgonfia. Una giovane dottoressa, tua allievetta ai tempi delle Elementari, ti stringe la mano con garbo che più materno di così non si può. E lei assieme ai chirurghi ti parla e ti racconta e ti fa parlare. Lei alterna la descrizione delle operazioni di rito per l’intervento con racconti di ricordi della sua giovinezza, nella tua scuola. Poi ti sussurra: “Ecco, fra tre minuti lei dormirà!”. Al tuo risveglio te la ritrovi nella stessa posizione, accanto a te, mano nella mano, a parlare ancora delle stesse cose.
Le chiedi: “Ma che ore sono?” e lei: “Sono le undici!”. Incredulo tu ribatti: “Ma…non mi operate mica?”. Al che, lei e chirurghi e infermieri tutti attorno, in coro: “Ma già fatto. E tutto bene, benissimo!”. In quel frangente così difficile, intanto il primo patema per l’intervento e per l’anestesia totale era superato. Con tanto personale che ti è stato tanto tanto vicino. Ma il tutto è appena cominciato. A intervento concluso, pensi e continui a pensare. E’ dura, dura, dura, dura. Ora pensi, nel ciucciarti anche le ferite. Qualcosa sopperiscono gli antidolorifici, ma non bastano. Sei attaccato a cannule, dappertutto. Non sei autosufficiente e dipendi da tutti in tutto. Sei inerme, impotente, non sai e non puoi provvedere a te, in niente. Sempre sicuro di te, più propenso a farti in quattro per aiutare gli altri piuttosto che a farti aiutare, tu… ridimensionato. Effettivamente non sei più nulla. E stai fermo e il dolore è costante, da tutte le parti. Sulla ferita i movimenti involontari peristaltici ti aggrediscono e si ripercuotono. Un respiro più profondo, un sospiro, un colpetto di tosse a stento frenato, la più piccola contrazione addominale per il più piccolo movimento si ripercuotono. E insieme i dolorosi strappi dei cerotti per le medicazioni mattutine, la flebite all’avambraccio per medicamenti mal tollerati dalla vena per la flebo. Niente sono gli oli vomitevoli da dover ingurgitare ogni sei ore, i due litri d’acqua giornalieri da dover obbligatoriamente mandar giù, il solo bere dei primi giorni e il mangiare che non è mangiare nei giorni successivi per una progressività che è esigenza necessaria per arrivare alla norma. Insieme, ancora, le analisi istologiche definitive che arriveranno fra quindici giorni. E pensi e pensi.
Frattanto…in tanti attorno a te. I medici con i loro incoraggiamenti che non sarà niente, che sarà tutto negativo, che il maledetto è stato scoperto tanto per tempo, che sei stato fortunato, che la fortuna sta anche nel fatto che non fumi e non bevi, che non ci sarà terapia-chemio, che se dovesse esserci sarebbe soltanto “terapia coadiuvante”. Tante persone ti stanno vicine nel momento difficile. E ritrovi gli amici. Anche qualcuno che non ti aspettavi. Scruti i loro occhi. E pensi, e vivi sensazioni, emozioni, impressioni, a dare un senso nuovo alla tua vita. Effettivamente quanta eccessiva importanza una volta riservavi alle sciocchezze! Scopri ora che le questioni importanti sono invece altre. Ti aspetta ora una vita da vivere sotto tutt’altre prospettive. Ti accorgi che tutto ora ti si para di fronte con significati diversi, in tutte le dimensioni. La stessa Eucarestia, che prima volutamente non doveva essere per te il rito settimanale, abitudinario, quanto piuttosto un avvicinamento a Lui da vivere significativamente in poche importanti occasioni all’anno, diventa invece ora “voglia frequente”, per chiedere, per implorare, per ringraziare. E pensi ancora. E pensi sempre.
La vita ti si cambia. Fino ad ora ritenevi di poter arrivare a tutto, con la volontà, con l’impegno. Nulla ti era precluso. Ti sentivi onnipotente. Per fortuna non fumi e non ti cascano addosso anche i problemi collaterali.
Ora, a casa, dimesso…pensi …e ripensi.
La mia risposta:
Gli auguri che ti rivolgo non sono i soliti auguri di circostanza, ti auguro
dal profondo del cuore una vera PASQUA: il termine nasce da una vecchia festa degli antichi agricoltori ebraici ed era la festa di primavera che voleva celebrare il ciclo della natura che rinasceva per dare nuova energia all’esistenza dell’uomo. Ho letto di un fiato l'allegato che mi hai spedito, passando attraverso sentimenti diversi, la comprensione, l'ammirazione per il modo in cui reagisci, la speranza, la certezza.La certezza che una roccia come te, una persona forte e piena di valori e di principi, supererà alla grande anche questa esperienza e ne trarrà nuova linfa e nuovo spirito. Non arrovellarti eccessivamente sulle motivazioni e sugli esiti. Ho una grande ammirazione per la tua persona e per le cose che hai sempre fatto dedicandoti allo sport e ai giovani con grande generosità.Lo sport saprà restituirti il sorriso e la spensieratezza, ne sono certo. Noi siamo uomini che vivono lo sport con grande intensità e con grande gioia di vivere.Sentiamoci per andare a prendere assieme un caffè, per farci una chiaccherata.
E ancora tanti tanti auguri di buona Pasqua, di tanta energia, di tanta voglia di vivere.
CIAO AMICO
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